Il dubbio - Un caso di coscienza


Il titolo originale è Bedoone Tarikh, bedoone emza, ovvero senza data senza firma, tradotto come il dubbio - un caso di coscienza, è un film del 2017 di Vahid Jalilvand.



È la storia del coroner Kaveh Nariman che dopo aver urtato con l’auto una famiglia in moto e soccorso gli - apparentemente sono solo lievemente - feriti, ritrova il giorno dopo il bambino investito nell’obitorio dove lavora.

Il dubbio è che la ferita riportata dall’incidente l’abbia ucciso. L’autopsia invece rivela un’avvelenamento da botulismo. Che sia stato veramente il cibo avariato a ucciderlo e non l’incidente?

La domanda lo logora fino a farlo diventare una specie di stalker di questa famiglia, facendo indagini su di loro, andando persino al cimitero, visitando il padre del bambino in carcere fino all’inverosimile: la riesumazione del cadavere del piccolo per effettuare una seconda autopsia. Probabilmente questo è un espediente narrativo, credo sia improbabile chiedere una riesumazione senza un motivo preciso, delle indagini e un’ordinanza di un giudice. E comunque, la scena della seconda autopsia di notte in solitaria - altro fatto poco credibile, ma spererei più metaforico - fa pensare che il dottore volesse solo “rivedere” questo bambino, dare maggior forza alla sua auto-accusa di omicidio stradale (?), perché sembrerebbe che l’autopsia non l’abbia proprio eseguita.

Sono andata a vederlo con molto entusiasmo, ma sono rimasta un po’ delusa.

Il protagonista è un personaggio un po’ piatto. Presentato come un anti-eroe si trasforma nel più prevedibile eroe buono che si sacrifica per il bene dei deboli: il cliché dei “film farsi” degli anni ’80 dove il personaggio buono è incapace di commettere alcun male, mentre il personaggio cattivo è un debosciato senza moralità alcuna.

Avrebbe dato spessore invece approfondire il rapporto con la ex-moglie. Si intuisce un divorzio più o meno pacifico, si intuisce la situazione di solitudine di lui: la coppia sembra non avere figli e la madre di lui è accudita da una badante perché in fin di vita. 

Detto questo, nel film “una separazione” di Farhadi - ennesima traduzione alla buona dell’originale Jodaeiye Nader az Simin, letteralmente la separazione di Nader da Simin - già aveva affrontato il tema del divorzio, che non è tabù in Iran come si possa pensare.

Piccolo appunto:
il divorzio in Iran esiste dal 1930 e di divorzio si parla anche nel Corano, perciò non capisco tanto scandalo. Diversa è la questione su chi ha più diritti e chi può richiedere il divorzio e come, ma è un’altra storia.

Tutte le scene con la moglie sono superflue a questo punto. Non si capisce bene in che rapporti sono e perché abbiano divorziato.  Neanche il fatto che sia questa ex-moglie/collega a fare la prima autopsia aiuta lo sviluppo dell’alchimia - o assenza di tale - tra i due. Tanto valeva lasciarli solo come colleghi di lavoro.

Il fulcro del film è la critica sociale sul divario sociale tra classi, dove il proletariato è sempre più marginalizzato e vive al limite della sussistenza. Povertà acuita dalle sanzioni internazionali, da una mancata riforma economica e di ridistribuzione, dalla corruzione imperante a tutti i livelli.

Peccato però che l’unico momento in cui lo spettatore si possa sentire coinvolto dalla storia sia la scena - recitata benissimo da Navid Mohammadzadeh - nel mattatoio di pollame, dove il rimorso del padre del bambino morto si scaglia contro l’uomo che gli aveva venduto la carcassa di pollo avariata.

È difficile immedesimarsi nel protagonista perché non si capisce da cosa scaturisce questa ossessione. Il dubbio di aver provocato la morte del bambino sarebbe stato dissipato da ogni mente dopo il referto dell’autopsia. Perché allora insistere? Perché è divorziato, senza figli, la madre è morente e si sente solo? Vuole difendere quel bambino perché desidera figli suoi ma per varie circostanze non ne ha? Ecco, se il film avesse approfondito le motivazioni alla base della psicologia del personaggio chiave, forse capiremmo meglio perché tanto “accanimento” su questa faccenda. 

Appunto di cronaca successivo al film: 
come ogni anno il Presidente Rohani ha invitato per celebrare la fine del Ramadan, l’Iftar, gli attori e i personaggi famosi del paese. Data la situazione di indigenza dilagante tra le classi meno abbienti, molti artisti hanno declinato l’invito scrivendo sui social la loro disaffezione, denunciando la violazione dei diritti umani, delle incarcerazioni dei propri colleghi, la povertà, ricordando le tante vittime dei terremoti degli ultimi anni e la mancata ricostruzione.

Azadeh Namdari, una presentatrice televisiva conosciuta per la sua difesa strenua e opportunistica dei valori islamici e dell’hijab, ha invece rimarcato come tutto vada bene e non ci sia bisogno di fare tutte queste proteste.

Ecco, Azadeh, vai a fine la birra che ti stavi bevendo in Svizzera (a capo scoperto, tra l’altro). 

Commenti

  1. Molto interessanti le annotazioni di Storia e di cronaca. E bello il tuo blog!

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